Tutti abbiamo un PASSATO…
Oggi tocchiamo un altro aspetto della formazione non convenzionale di un coach: il peso e il significato del percorso personale e professionale di una persona prima di diventare coach.
Si tratta di uno degli argomenti che maggiormente suscita polemiche fra gli stessi coach: se aveste l’occasione di frequentarne molti, infatti, vi ritrovereste probabilmente ad assistere ogni tanto ad una sorta di derby (della Mole, della Madonnina, del Colosseo, del Faro di Genova… fate voi, io non sono tifosa!).
La squadra A sostiene che un coach debba essere un esperto di contenuti nell’argomento di cui tratta e aver già vissuto esperienze significative e ottenuti risultati di eccellenza.
La squadra B argomenta che un coach debba essere esclusivamente un esperto di processo (di coaching), il che significa essere in grado di individuare e trattare schemi, credenze, atteggiamenti, abitudini disfunzionali, a prescindere dall’ambito di applicazione del processo stesso.
[A dirla tutta esiste anche una squadra C, che sostiene che il coach dovrebbe essere una sorta di semi-dio, praticamente perfetto e sempre di buon umore, in ottima forma e salute, ricco sfondato e simili: si tratta di una squadra numericamente poco consistente, e di solito composta da chi non è affatto coach e vuole screditare la categoria, quindi non ce ne preoccupiamo.]
Lo scontro si fa spesso molto acceso: qualcuno si schiera apertamente, altri si nascondono dietro a paroloni dal tono accademicamente impegnativo, altri infine ritengano che la verità stia nel mezzo. Di certo in merito a questo argomento ho letto articoli di ogni genere e ascoltato le opinioni più estreme. E, almeno per adesso, non mi sembra di aver notato un chiaro vincitore della tenzone.
Tuttavia, non si tratta di una discussione meramente accademica fra coach, perché, quando qualcuno ritiene di aver bisogno di un supporto professionale per ottenere un determinato risultato, deve poter prendere una decisione basandosi sul maggior numero possibile di informazioni oggettive, e il concetto di esperienza pregressa secondo me ricopre un ruolo rilevante nel processo decisionale.
Tutti abbiamo un passato!
La mia opinione è che tutti i coach debbano essere esperti (capaci, bravi, competenti) di processo, qualunque sia il campo di applicazione del loro coaching e anche la metodologia di elezione.
Il coach è sia uno specchio, che permette al coachee di vedere l’immagine di ciò che non è evidente ai suoi occhi, sia una lente di ingrandimento, che evidenzia i particolari nascosti attraverso rimandi e domande mirate: per farlo in modo efficace e costruttivo, deve sapere come farlo.
Questa è l’arte – o la tecnica – del coaching, e non si può far finta che non esista: va appresa, coltivata, curata, esercitata, messa in discussione e alla prova anche attraverso la supervisione di altri coach più esperti. Esistono talenti naturali, ed esistono persone che lavorano sodo per arrivarci, vale a dire la maggior parte dei coach.
Il vantaggio di lavorare con un esperto “solo” di processo è evidente: non conosce, almeno non in modo così approfondito, il vostro argomento, quindi potrà vederlo con occhi diversi, da un’altra prospettiva, cogliendo le debolezze del sistema di pensiero e azione che mettete in campo per affrontare l’oggetto del processo di coaching.
Al tempo stesso, però, non ha senso ignorare il percorso personale e professionale che un coach ha maturato durante la propria vita, dato che – almeno a oggi – sono pochissimi i coach che hanno scelto questa strada terminate le scuole superiori!
La maggior parte dei coach hanno alle spalle anni di esperienza, un bagaglio umano importante, competenze tecniche (scientifiche o umanistiche) e relazionali, e il vantaggio di tutto questo è altrettanto evidente: l’esperienza permette di vedere cose che un inesperto – o un meno esperto – non vede, di rimandarle con maggiore dettaglio, di contribuire con feedback mirati ad accelerare il processo che porterà al raggiungimento dell’obiettivo.
Quindi, quale decisione prendere?
A questa domanda non esiste una risposta a priori “corretta”.
Ognuno secondo me deve valutare con attenzione prima di tutto se stesso: riteniamo di poter concedere la nostra fiducia più facilmente a una persona inesperta dell’argomento, che potrebbe non coglierne alcuni aspetti secondo noi importanti, o a una persona competente dell’argomento stesso, che potrebbe al contrario – anche inconsapevolmente – volerci indirizzare in una direzione non nostra?
In teoria entrambe le opzioni si equivalgono, il rischio di interferenza da parte dell’esperienza pregressa del coach dovrebbe essere inesistente così come quello che le competenze di processo non siano sufficienti a scovare le “falle del sistema”: un professionista deve essere in grado di mantenersi neutrale e, a prescindere da età ed esperienza, deve padroneggiare totalmente il processo di coaching.
Inoltre è importante anche valutare oggettivamente la nostra posizione emotiva nei confronti del coach: ci piace, ci fa sentire ascoltati, parla la nostra stessa lingua?
Pur mettendo in conto che durante il percorso di coaching esistano necessariamente momenti in cui il nostro coach non ci sia del tutto gradito (di solito quando ci spinge al di fuori della nostra zona di comfort o ci aiuta a vedere qualcosa che non ci piace), se in generale non ci sentissimo a nostro agio non ci sarebbe esperienza o competenza che potrebbe salvare la relazione, e quindi preservare il risultato.
Alla fine, il risultato è quello che conta: quello per cui paghiamo, accettiamo il rischio di esplorare nuovi territori e ci impegniamo, a volte per mesi se non anni. Scegliamo quindi con saggezza, usando sia la razionalità sia la nostra sensibilità e il nostro intuito: prendersi un po’ di tempo per decidere può poi incidere significativamente sul successo finale.
=> Come sempre, ti invito a scrivermi per farmi sapere la tua opinione: mi raccomando!
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